Nella mia esperienza di psicologa e psicoterapeuta ho cominciato ad incontrare le famiglie adottive in maniera direi inaspettata, non pensando di rivolgermi proprio a loro bensì essendo interpellata da loro.
L’incontro è avvenuto attraverso un interlocutore specifico: la scuola. A lungo mi sono occupata di supporto all’apprendimento con bambini che incontravano difficoltà scolastiche, mediando tra le agenzie famiglia e scuola, pensando di facilitare il rapporto tra loro. Qualche anno fa ho iniziato ad incontrare bambini adottati, in storie di adozioni internazionali, i cui genitori chiedevano supporto nei compiti; il vissuto con cui mi contattavano era spesso di preoccupazione e urgenza, soprattutto dentro le difficoltà di apprendimento della lingua per bambini arrivati da poco tempo e magari ad anno scolastico già avviato; oppure in generale di incontro con un sistema di istruzione molto diverso da quello di provenienza: lavorando con bambini provenienti dall’America Latina, ad esempio, ma anche dell’est europeo, si capiva presto che avevano conosciuto una scuola con altri principi educativi, altri tempi di lavoro e gioco, altri luoghi rispetto alla classe e altre tipologie di relazione nell’apprendere.
Dentro queste vicende ho riflettuto su come che nelle storie di adozione si concentrino nel rapporto con la scuola delle emozioni che riguardano più in generale la relazione che si sta costruendo dentro la famiglia, e tra la famiglia e i suoi interlocutori. Ho quindi cominciato a proporre una mia funzione, proprio attraverso le attività di apprendimento e aiuto compiti, come quella di un accompagnatore dell’incontro tra la famiglia e un sistema che può essere pensato come uno dei primi sistemi di uscita da essa, come la scuola appunto.
Avevo in mente che la scuola appare ad un certo punto della storia delle famiglie adottive, come di tutte le famiglie del resto, come contesto di verifica, che chiede delle cose con i suoi linguaggi e con le sue logiche, e che sollecita una riorganizzazione; così come pensavo ai genitori che possono aspettarsi dalla scuola un interlocutore con cui condividere parte dei progetti per il futuro della propria famiglia e dei desideri di prendersi cura del bambino.
Dalla mia esperienza questo incontro tra famiglia adottiva e scuola era impegnativo, chiedeva spesso un accompagnatore, necessitava di passaggi per esprimersi trovando alternative a dimensioni prevalentemente di lontananza se non di conflittualità, magari poggiate sull’idea di “specialità del bambino in quanto adottato”.
Una grande parte della giornata dei bambini che ho incontrato ruotava attorno alla scuola, e anche molto del tempo fuori, ad esempio nel fare i compiti insieme a uno dei genitori. Parlando con i bambini, soprattutto con quelli arrivati da poco, mi sembrava spesso di rintracciare a carico della scuola un desiderio legato soprattutto al rapporto con i compagni, nella possibilità di essere visti, cercati, e di stabilire un legame con loro; nella mente dei genitori e dentro i rapporti spesso complessi con gli insegnanti, sembravano prevalere vissuti e preoccupazioni relativi a ritardi da recuperare negli uni, regole di condotta scolastica da far apprendere quanto prima negli altri.
Una cosa che mi colpito all’epoca ed è stata il passaparola tra le famiglie, che ha fatto sì che alla prima ne seguissero altre, alle prese con problemi simili. Ho pensato alla risorsa di sentire una appartenenza tra famiglie adottive e pensare di confrontarsi, magari in tempi diversi, con problemi per i quali qualcuno ha già percorso strade per occuparsene che si vogliono mettere a fattore comune.